The Last of Us Part II è stata un’esperienza unica, destabilizzante e feconda delle più svariate emozioni e tematiche. Per queste ragioni ho scelto di non scrivere una recensione e di non trattare l’aspetto puramente ludico del gioco, bensì di limitarmi allo spettro tematico-narrativo. Il racconto firmato da Neil Druckmann e Halley Gross è infatti complesso, stratificato, privo di coordinate morali e capace di insinuarsi sotto la pelle del giocatore. Al fine di potervi spiegare come ciò avvenga dovrò però far riferimenti espliciti a momenti cruciali del racconto. Per questa ragione, nel caso non abbiate terminato l’avventura, vi invito a fermarvi qua e a tornare una volta visti i titoli di coda.
I walk through the valley of the shadow of death/And I fear no evil because I’m blind to it all/And my mind and my gun they comfort me/ Because I know I’ll kill my enemies when they come
L’incipit su cui si fonda la storia The Last of Part II è una dichiarazione di intenti provocatoria e sfacciata. La scelta di uccidere Joel nel prologo ha infatti lo scopo di trasformare l’ipotetica lezione finale nella premessa introduttiva. Joel non era un personaggio positivo nel primo capitolo. Compie azioni brutali, egoistiche e spietate. Proprio per queste ragioni, con l’aggiunta di quel finale che tutti ben conosciamo, è intuibile che quella mazza da golf sia una conseguenza più che meritata. Nonostante questa consapevolezza veniamo però costretti a prendere il controllo di Ellie e partire per una vendetta ingiusta e non necessaria. Vendetta che già sappiamo causerà ad Ellie violenze fisiche ed emotive irrimediabili. Ciò che viene chiesto al giocatore non è quindi di capire il disvalore delle azioni della protagonista, bensì accettare che anche questa volta la visuale sia dietro le spalle del personaggio più disumano e crudele della produzione.
Rilevante quanto straziante diventa quindi il fugace momento concessoci per elaborare il lutto. Prima il tempo di annusare una giacca per scalzare l’odore del sangue. Poi un attimo per osservare la fotografia raffigurante Sarah, la vera ragione per la quale perderemo tutto ciò che amiamo. Infine la scelta dei ricordi da serbare. Il revolver per lavare il sangue con altro sangue. L’orologio rotto per giustificare un torto rimediato con altro torto. L’incapacità di suonare Future Days dei Pearl Jam fino alla realizzazione di non poterlo mai più fare. Joel ha tolto ad Ellie quello che lei ha deciso essere il senso della sua vita e quando ha provato a dargliene un altro ha osato morire. Ellie non chiede a Joel di rialzarsi per il bene che gli vuole, ma perché ora che ha scelto di provare a perdonarlo, non può accettare di perdere nuovamente il suo unico scopo. Non le resta quindi che partire nella speranza che l’ennesima vita portata via possa arrestare quell’egoistica fame che il rapporto con Joel sapeva saziare.
I used to think that the day would never come/I’d see the light in the shade of the morning sun/My morning sun is the drug that brings me near/To the childhood I lost, replaced by fear/I used to think that the day would never come/That my life would depend on the morning sun…
La voglia di vendetta della protagonista nasce quindi priva del sentimento tipico che la caratterizza e priva di un vero e proprio bersaglio. Abby in realtà è poco più di un caso, un fulmine a ciel sereno che ha scosso un’identità già profondamente in crisi. Ellie è un personaggio perso nella tempesta generata dalla scoperta della propria sessualità, dall’avvicinarsi dell’età adulta e dalla presa di coscienza dell’inevitabilità della scelta di Joel. La perdita dell’unica bussola morale che abbia mai conosciuto, la rinchiude in un labirinto esistenziale dove sofferenza e dolore sono le uniche coordinate per uscirne. Ogni morte causata e ogni grido straziante udito spera possano svegliarla da un incubo dal quale è ben conscia esserci una via d’uscita. La strada per tornare indietro è sgombra, la comunità di Jackson è pronta ad abbracciarla e piangere Joel con lei e Dina porta in grembo un futuro migliore, un futuro candido.
Ed è proprio nel raccontare il rifiuto di questa seconda via che Naughty Dog sfodera una della vette di narrazione americana più alte viste in anni. Ispirandosi ai temi e ai ritmi tipici delle opere di McCarthy, il gioco priva il giocatore di coordinate rassicuranti quali l’espiazione della colpa del protagonista, la lezione morale riguardo le scelte da esso compiute e la certezza finale che vi sia sempre stato un bene ultimo da raggiungere. Ellie non è pervasa da un senso di giustizia, non ha davvero riguardo al destino delle vite che toglie e il suo fine è riducibile a un mero spargimento di sangue. Il mondo di The Last of Us è nulla più che una reinterpretazione post-apocalittica dell’America di frontiera tardo ottocentesca, ma noi non vestiamo i panni dell’antieroe solitario con la giustizia nel revolver, bensì quelli di una ragazza qualunque cresciuta dal sangue e votata ad esso.
All the promises at sundown/I’ve meant them like the rest/All the demons used to come ‘round/I’m grateful now they’ve left
Inestimabile è anche come avvenga, da parte del giocatore, la presa di coscienza di ciò che gli si stia narrando. I personaggi che circondano Ellie e la ragazza stessa non tornano infatti mai sui passi compiuti e i momenti in cui potrebbero star riflettendo sulle loro azioni sono tagliati dal tipico montaggio di Naughty Dog. Il pianto della Ellie straziata dalle torture inflitte a Nora non è mostrato, così come è nascosta la reazione della protagonista quando scopre che Mel è incinta. E ancora, non viene mai mostrata l’elaborazione della scelta di abbandonare la famiglia per andare incontro alla sua più grande paura, ovvero restare sola. Quella compiuta dalla ragazza è un’elaborazione delle conseguenze delle sue azioni o una mera accettazione della sua natura? C’è davvero una ragione dietro questo spargimento di sangue? La penna degli autori dilania sia Ellie, facendole compiere gesti umani quanto autodistruttivi, sia il giocatore, privandolo della possibilità di trovare del buono nel personaggio col quale sta empatizzando.
Saranno proprio i pochi minuti prima dei titoli di coda a chiarire indelebilmente la realtà dei fatti. Ellie non perdona Abby e non torna a Jackson. Ellie comprende Joel e accetta se stessa. Ellie ha ucciso a sangue freddo e ha perso tutto in cambio di niente e ora, nonostante abbia trovato la pace per poterlo fare, non riesce nemmeno più a suonare quel brano che incarna quel poco di buono di Joel che rimane nel mondo. Questo è e questo doveva essere: un prodotto della violenza degli uomini. L’amore per un figlio non può lavare l’onta della morte. Una carezza di Dina non può illuminare la buia certezza che solo un colpo di grazia in quel teatro ti avrebbe dato la serenità. Vendicarsi serviva solo a farsi imporre una fine. Una fine rapida, spietata, priva del peso della riflessione interiore. Lo hai sempre saputo, ma ora lo accetti e chissà se lo cercherai ancora.
We’re talking away/I don’t know what I’m to say/I’ll say it anyway/Today’s another day to find you/Shying away/I’ll be coming for your love, okay?
E poi c’è lei, Abby. Abby è la scommessa più ambiziosa mai fatta da parte di Naughty Dog e il risultato è stato senza alcun dubbio indimenticabile. Ogni singola parola scritta fin qua non avrebbe senso senza di lei e proprio per questa ragione si potrebbe dire essere il personaggio meglio scritto di The Last of Us Part II. Abby è una giovane ragazza a cui viene strappato via tutto da un contrabbandiere di nome Joel, se ne vendica, risparmia la vita alla ragazza che lo segue e prova ad andare oltre. La vendetta incide ulteriori cicatrici su un rapporto, quello con Owen, già martoriato. Eppure va avanti, passo dopo passo, proiettile dopo proiettile. Diventa l’ancora di salvezza di un ragazzino ricercato da una folle setta religiosa e allo stesso tempo la persona che ora finalmente potrebbe amare vuole inseguire quel sogno che ha perduto: le Luci. Eppure va avanti, con la colpa di quel sesso rubato e la morte che incombe. Arriva una giovane ragazza e stermina tutti i suoi amici. Lei la trova, le uccide un amico, la massacra e alla fine, con un coltello puntato alla gola della fidanzata incinta la risparmia, per la seconda volta.
Abby a questo punto è libera. Ha perduto tutti i suoi amori e quella causa che seguiva per darsi uno scopo. Allora prende Lev e insieme partono per Santa Barbara alla ricerca di quella flebile speranza che sono le Luci. Purtroppo però vengono catturati e sarà proprio quella ragazza che ha risparmiato due volte a salvarla, ma solo per vederla morta. Ed è qua che nonostante tutto Abby va avanti perchè deve procacciare a sè e a quella giovane vita che dipende da lei un futuro migliore, un futuro dove c’è un senso per le azioni compiute. Abby è un essere puro, sporcato dal crudo mondo in cui vive, ma pur sempre puro. Consumata la vendetta il suo animo è libero e capace di osservare davvero il mondo che la circonda. Un mondo selvaggio che si muove grazie a un flusso costante di sangue. Flusso di sangue che prova a interrompere senza versarne altro, ma che alla fine la costringerà a un compromesso: combattere con Ellie e privarla dell’ultimo tassello che è disposta a perdere per accettare la sua natura. Ed è infatti proprio asportandole a morsi quelle due dita che risparmierà Ellie per la terza volta.
I’m goin’ home to see my Savior/I’m goin’ home, no more to roam/I am just goin’ over Jordan/I am just goin’ over home
L’unico ruolo positivo all’interno del racconto è quindi quello interpretato da Abby. Osservando i comportamenti e le scelte compiute dalla ragazza appare evidente che rappresenti l’altro lato della medaglia rispetto a Joel ed Ellie. Il sentimento che la spinge inizialmente è vicino a quello di Ellie, ma non appena se ne libera prova a fare ciò che muove Joel per l’intero primo capitolo, espiare le proprie colpe. Cosa che però, al nostro caro protagonista, riesce solo morendo all’inizio del secondo capitolo. Se infatti il finale di The Last of Us non è altro che l’ennesimo atto egoistico di un uomo fragile e privo di ragioni per vivere, il risparmiare Ellie per ben due volte nella seconda parte è l’atto più umano che si potrebbe compiere. Abby si fa quindi carico dell’odio dei giocatori per dimostrar loro chi sono i veri cattivi della storia. L’odio provato verso lei però sparisce molto in fretta per far posto alla comprensione, all’empatia e alla sofferenza nel vederla sopperire sotto i colpi di ciò a cui ha provato porre rimedio.
Abby si fa allora carico di salvare una vita ulteriore: quella di Ellie. Lì, su una spiaggia nebbiosa, dopo essere stata crocifissa per giorni, alza la guardia e comincia a cadere sotto le pugnalate della furia cieca di una ragazza a un passo dalla fine. E allora combatte, incassa, risponde e alla fine, venendo risparmiata, la uccide. Così come a inizio gioco aveva chiuso un cerchio uccidendo Joel, alla fine straccia le trame rimaste di quell’ arazzo pieno di sfregi che è Ellie. Portato a termine il compito sale sulla barca e parte senza voltarsi indietro. In un ricordo ci aveva detto che si sarebbe sacrificata per dare all’umanità una cura ed è proprio questo che fa fino alla fine, dare una cura all’umanità che la circonda. Sacrifica il suo corpo per rendere Owen libero di partire, rischia la vita per liberare Lev e si dona a Ellie per liberarla dagli spettri che hanno tormentato anche lei. Abby, in fin dei conti, è una cura per l’umanità più forte di quella che mai sarà Ellie.