Il medium videoludico nel panorama delle forme espressive della post-modernità

Per quanto possa sembrare assurdo, molte volte il primo (o la prima) che deve capire quello che vuol dire un pensiero è proprio colui (o colei) che lo pensa: e per quel che ci riguarda non v’è molta differenza. Certo, non è da ieri che abbiamo iniziato a fare analisi sul medium videoludico e sulle sue espressioni e sulla sua espressività sebbene ci fossero almeno altri sei o sette anni precedenti in cui analizzavamo il medium, ma comunque quanto detto sopra vale sempre e comunque: nel caso di chi scrive, oltre i gentili lettori, che supponiamo facciano un po’ di fatica a leggerci (e riconosciamo che la cosa è voluta ed in parte è anche colpa nostra: voluta, poiché volutamente, abbiamo scelto uno stile e dei temi non molto vicini all’usuale mondo del videogioco, ma anche colpa, poiché siamo ovviamente responsabili di asperità non poche volte evitabili – di ciò chiediamo venia ai lettori e cercheremo di essere più zelanti in futuro), non poca fatica fa il sottoscritto a capire cosa sta egli stesso pensando.

Purtroppo il pensiero è così: insondabile come l’animo di una donna e imperscrutabile nel suo evolvere e manifestarsi come essa è. Si può pensare comunque (e per ora perciò) questo articolo come ad una sorta di chiave di volta di quanto abbiamo scritto sino ad ora: in parte volutamente, abbiamo fin’ora lasciato emergere nei nostri articoli solo alcuni momenti del fluire del pensiero sul medium tanto amato da noi che scriviamo e voi che leggete; dunque questo articolo li riconterrebbe tutti? No. Più che contenerli tutti, poiché ogni articolo che abbiamo finora scritto è effettivamente a sé stante, è l’articolo che per ora (lo ricordiamo) permetterebbe di poter passare dagli uni agli altri. Per usare un’immagine, se i precedenti articoli fossero delle isole, quest’articolo è da considerarsi come la costruzione di ponti fra di esse (molto probabilmente incompleti). Inoltre, è opportuno far notare come si dia più importanza al panorama delle forme espressive della post-modernità che alla posizione del medium videoludico in esse, e questo perché di ciò abbiamo trattato in precedenti articoli: effettivamente, ciò che mancava era proprio questo, ovvero una sorta di cornice generale.

Non di meno, prima di entrare nel tema del discorso, ovvero del rapporto fra il medium videoludico e le forme espressive della post-modernità, è necessario rispondere ad una domanda preliminare di una certa importanza: “Che cos’è l’arte?”. Iniziamo dicendo che l’arte, come è facile vedere, è un meme, e con questo termine si intende dire l’unità minima di archiviazione (produzione, recupero e stoccaggio) di informazione culturale (definita in questo caso come differenza fra due unità, differenza la quale è generata da una terza): il meme è entro certi limiti, l’equivalente del gene, soltanto che quest’ultimo è l’unità minima di archiviazione di informazione naturale. Per essere più precisi, il gene codifica informazioni per l’evoluzione naturale darwinianamente intesa, mentre il meme per quella culturale. Non andremo più nello specifico, onde evitare di uscire troppo dall’ambito di ricerca, il quale è, come dice il nome, quello del medium videoludico.

Non di meno, però, l’evoluzione non può essere semplicemente appresa con un meccanismo premio/punizione: per tagliare corto, addestrare gli altri animali ad essere “umani” ha per lo più portato al fallimento, e anche quando si sono ottenuti, soprattutto con le scimmie, dei risultati, quest’ultimi sono molto lontani dai livelli a cui noi siamo abituati nella nostra specie. Ne consegue che ci deve essere qualcosa di culturale che tuttavia è codificato naturalmente che permette la cultura per come noi la conosciamo: tale misteriosa entità è quello che potremo chiamare segno. Da una domanda, ora ne abbiamo un’altra, e non meno importante: “Che cos’è il segno?”. Il segno è definito come una processualità fra i riferimenti, sebbene si tenda a distinguere per parte nostra, fra segno proprio e segno allargato. Ma andiamo con ordine: che cos’è un riferimento? Un riferimento è “qualcosa” che si può trovare nel segno, e quella che potremo chiamare come teoria generale del riferimento è la teoria che elenca tutte i riferimenti che si potrebbero trovare nel segno.

I riferimenti sono cinque: referente, riferito, significato, significante ed emozione. E questo perché, molto semplicemente, non abbiamo contatto con nient’altro rispetto a quanto sopra elencato. Ovviamente ora spieghiamo cosa intendiamo dire coi vari termini sopra usati: il riferito è quello che percepiamo, ovvero vediamo, sentiamo ecc. (per esempio il computer che i gentili lettori hanno davanti in questo momento è un riferito); il referente è la così detta immagine mentale del riferito, in altre parole, si tratta dello stoccaggio in memoria di informazioni percettive (per esempio, il referente del computer è quello che “vedete” quando chiudete gli occhi e ricordate le fattezze dal computer da cui, per esempio, i gentili lettori stanno leggendo).

Per quanto possa sembrare una duplicazione la differenza fra referente riferito, in realtà essa non solo è reale, ma anche fondamentale, sia per il nostro discorso che per la vita di tutti i giorni: come si fa a riconoscere che, fra gli oggetti che ho davanti, quale sia un computer, per esempio il vostro? Appunto grazie al referente. Senza di esso potreste sapere che cos’è un computer, nel senso di come funziona e quant’altro, ma non sareste in grado di riconoscerlo fra gli oggetti che vedete. E questo è quello che accade nella così detta agnosia associativa: il soggetto affetto da questo tipo di agnosia, dovuta a lesioni cerebrali, pur sapendo cosa sono gli oggetti e quant’altro, e non di meno vedendoli, non è comunque in grado di associare i concetti (i significati – ma anche i significanti, come vedremo) al riferito, che pure percepisce senza problemi, proprio per mancanza del referente, che permette di riconoscere appunto il riferito.

Rimangono ora solo significante e significato: il significato è il concetto, e per evitare ambiguità, intendiamo dire che si sta parlando in termini di estenzionalità ed intenzionalità, nel senso matematico del termine: nella teoria degli insiemi, l’estenzionalità di un insieme è la lista completa di tutti gli elementi che lo compongono (per esempio, l’estenzionalità dell’insieme di tutti gli insiemi che hanno due elementi, comunemente noto come il “2”, sono tutti gli insiemi che hanno due elementi), mentre l’intenzionalità è la proprietà che è in grado di descrivere tutti gli elementi dell’insieme (nel nostro caso preso in esame, l’intenzionalità di 2 è, appunto, avere due elementi; se si preferisce, si può pensare anche al caso dei multipli di due, dove l’estenzionalità è “2, 4, 6 ecc.”, mentre l’intenzionalità è appunto multiplo di due). Dunque il concetto è un insieme: sì e no; e no perché non ci sono solo insiemi intenzionalmente ed estensionalmente definiti (e peraltro sarebbe necessario aggiungere un ulteriore richiesta oltre alle precedenti per poter parlare di insieme senza generare inconsistenze, ma non diremo altro), ma anche “insiemi” caratterizzati dalla sola estenzionalità, ma da nessuna intenzionalità, per esempio, “ciao”, la cui estenzionalità è “funzione fatica del linguaggio espressa ad un livello colloquiale ed/od informale” (chiediamo venia se non definiremo cosa si intende per funzione fatica del linguaggio, ma vorremo evitare di appesantire più del necessario e più di quanto non abbiamo fatto già fatto, volenti o nolenti).

Da ultimo e non meno importante, rimane il significante, il quale può essere distinto in formale o materiale: il significante formale altro non è che una sintassi, mentre quello materiale è semplicemente quello che viene usato dalla sintassi, che viene intesa come sistema di trasformazione di formule. Ad es.: il cane è sul davanzale (soggetto – predicato – complemento di luogo -stato in luogo-), è il significante formale, per la precisione, una risultante da una sintassi, mentre i suoni “il cane è sul davanzale” sono il significante materiale. L’emozione non verrà definita, sia perché la si dà per nota e conosciuta, sia perché è difficile definire un emozione.

Allora cosa vuol dire che il segno è una processualità fra i riferimenti? Appunto che il segno è una qualche trasformazione che si genera fra i riferimenti (la classificazione classica fatta da Charles Sanders Peirce è una lista non esaustiva atta ad elencare le possibili tipologie di processualità che possono riconoscere i segni, e quindi le tipologie di segno). Ma abbiamo parlato anche di segno proprio e segno esteso: per segno proprio intendiamo il nucleo minimo per cui un si possa parlare di segno, o per essere più chiari, quei riferimenti che ci devono essere per forza affinché si possa parlare di segno.

Il segno proprio (o segno minimo) è quello che composto da significato e significante (sia materiale che formale): il significato è, come abbiamo detto, il concetto, mentre il significante è il linguaggio, che viene definito come dispositivo generante di sintassi, mentre la lingua come risultate generata dal linguaggio (se si preferisce, il linguaggio può essere inteso come ogni possibile trasformazione fra ogni possibile elemento della lingua, mentre la lingua come una specifica selezione fra le possibilità e fra gli elementi). Anche qui eviteremo di dire di più, e tralasceremo il concetto di segno esteso. Tutto ciò serve da condizione che ci permette di arrivare ad un punto dove volevamo arrivare, ovvero ad una classificazione differente da quella peirceana, che potremo definire “ontologica”, in quanto in base ad essa siamo in grado di poter definire quante ontologie abbiamo. Eccola di seguito:

1) Significante (Emozione)
2) Significante – Significato (Emozione)
3) Significante – Significato – Referente (Emozione)
4) Significante – Significato – Referente – Riferito (Emozione)

L’emozione è messa tra parentesi non perché non sia importante, anzi, ma essa, con una sola e grande eccezione, non è rilevante per riconoscere un’ontologia (che chiediamo ai gentili lettori di dispensarci, previa richiesta apposita, dalla definizione del termine): quella che ci riguarda con particolare attenzione è la terza, poiché essa definisce il tipo di segno che si trova nell’arte e di fatto ci dice anche che cosa sia l’arte. Che cos’è l’arte allora? Di sicuro non è una imitazione di qualcosa di reale: lasceremo perdere quanto detto da Platone, poiché la sua posizione è molto complicata e non c’è spazio per trattarla, ma comunque nell’arte non c’è presenza dell’oggetto reale, ma semmai dell’immagine mentale (il referente).

E la prova è quanto mai evidente: se pensiamo all’incipit della Divina Commedia, quello che ci viene in mente, non è certo di andare a vedere una foresta, ma, appunto, ci “viene in mente” una foresta. Certamente, e lo riconosciamo, il referente (essendo informazione percettiva tenuta in memoria) proviene dall’esterno, ma non è sufficiente per poter affermare che l’arte sia una imitazione delle cose che percepiamo. Qui ci possiamo ricollegare con le considerazioni sul cinema: lo scettico infatti potrebbe chiedere di considerare il caso del cinema, e la risposta è che la telecamera non ci riprende la realtà tale e quale è.

E’ molto importante ricordare che il cinema, così come la televisione, non ci mette davanti al riferito, ma al referente, e quindi ad una sorta di immagine fantasticata – e tutto ciò è molto gravido di conseguenze. Senza poi considera che ci sono anche gli elementi della semantica e della sintassi, che non sono certo da sottovalutare. Ma la domanda principale è ancora lontana dall’ottenere una risposta soddisfacente: che cos’è l’arte?

Continuiamo a fare alcune considerazioni: l’arte, come possiamo vedere, ha anche una sintassi (significante) ed una semantica (significato), oltre che un referente, il che vuol dire che ogni opera d’arte è praticamente una sistema artistico (e quindi un insieme di trasformazioni fra elementi, ovvero quelli sopra messi in evidenza, e le trasformazioni fra le trasformazioni). Ma fino ad ora abbiamo parlato di arte in generale, ma ovviamente sappiamo che ci sono varie tipi di arte: pittura, architettura, cinema, scultura e quanto è più esperto del sottoscritto sa più e meglio di me. Ovviamente ognuna di queste forme artistiche è caratterizzata, e differenziata dalle altre, dal fatto che ognuna di esse è caratterizzata da una processualità fra i riferimenti (ed una presenza selezionata fra i referenti) che la caratterizza e la individua. Ecco comparire così un primo risultato: l’arte è un particolare tipo di segno che può emergere dalla nostra configurazione segnica (che, lo ricordiamo è composta da sintassi e semantica, nel suo hardcore).

Si può far notare come, nell’arte, la coppia sintassi/semantica possa essere intesa come espressione/espressività, di cui abbiamo già parlato precedentemente. Ma la domanda non è ancora soddisfacentemente risposta: che cos’è l’arte? Altra cosa importante da notare è che il segno artistico rimanda al segno artistico, e non esce mai da sé stesso: nella fruizione di un opera artistica, il segno artistico rimane attentamente chiuso in sé stesso (sebbene ci siano delle eccezioni, specialmente, ed è molto significativo, nel nostro secolo – e la metareferenzialità è stata analizzata per parte nostra nel caso più famoso, cioè Metal Gear Solid), poiché esso rimanda (nel senso che si muove entro) a sé stesso, in altre parole esso genera trasformazione fra segni dello stesso tipo, che abbiamo messo in luce sopra. E che cos’è questo elemento? E’ la così detta sospensione volontaria dell’incredulità, cui rimandiamo negli articoli che abbiamo già precedentemente scritto.

E la sospensione volontaria dell’emotività? Essa è simile all’altra, ed è presente in tutte le arti, ma ha luogo principe nella musica, che è completamente basata su di essa: la musica, di fatto, altro non è che una sintassi che manipola suoni saturati non da una semantica (prendiamo in esame per semplicità musica solamente strumentale), ma da emozione. La musica non parla – essa emoziona, e non nel senso più “emotivo” e sciocco del termine. Ma lasciamo perdere questo problema. Un ultima parola, e dopo di che tireremo le somme di queste lunghe considerazioni, è sulla rappresentatività: essa, quale punto di collegamento fra la sintassi, la semantica e il referente, anzi è proprio come essa si realizzi e come venga pensata, è presente proprio in questo punto, ma anche qui rimandiamo agli articoli scritti.